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Ski Perù

 

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Sogna in grande e osa fallire.

Alla ricerca di incognite a diecimila chilometri da casa.

“Cercasi uomini per viaggio rischioso. Paga bassa, freddo glaciale, lunghe ore di completa oscurità. Incolumità e ritorno incerti». Questo era l’annuncio utilizzato da Sir Ernest Shackleton per reclutare uomini che lo accompa- gnassero nella sua spedizione a bordo del veliero Endurance, con l’obiettivo di compiere la prima traversata del continente Antartico. Com’è poi finita lo si sa, con una delle più grandi storie di resilienza ed esplorazione della storia del ‘900. In una chiave aggiornata al 2018, anche il mio viaggio in Perù è cominciato in modo abbastanza spregiudicato. Una foto di una montagna inviata in chat su Instagram a metà febbraio, corredata da poche righe: «Ho una proposta indecente da farti. Dal 20 maggio al 20 giugno. Io, te, Dadde e Zeno. Dritti dalla cima. Mai sciata. Pensaci». Detto, fatto. Dopo un inverno stellare e una primavera mediocre sulle Alpi ci siamo dati appuntamento a metà maggio all’aeroporto di Amsterdam, dove io sono arri- vato da Torino e Enrico e Davide da Venezia. Una Guida alpina, un fotografo e un maestro di sci. Roba che neanche le spedizioni militari degli anni ’50 erano così ben assortite. Da lì ci siamo poi imbarcati sullo stesso volo per Lima, con poche idee in testa ma abbastanza chiare: sciare l’Ausengate, una cima semi-sconosciuta di 6.384 metri a sud di Cusco. Come documentazione di supporto avevamo qualche foto, le immagini prese dal satellite e il video vecchio di dieci anni degli unici altri due scialpinisti che avevano battuto quella zona prima di noi, niente meno che Rémy Lécluse e Glen Plake. Insomma, non potevo di certo dire di avere basi solide sulle quali intraprendere la mia prima spedizione a diecimila chilometri da casa.

A Cusco ci siamo arrivati dopo venti ore di pullman, cose che succedono quando hai voglia di viaggiare ma pochi soldi in tasca. Ricordo che ad un certo punto, nella notte, mi sono svegliato con il volto pallido e la pressione sotto i piedi. Chiedendomi perchè stessi così male, ho rivolto un’occhiata distratta all’altimetro, mentre sullo schermo del sedile scorreva uno di quei film della Marvel che ci si guarda solo per non impegnare la testa. Sentire esclamare in spagnolo “Soy Thor, hijo de Odino!” è un’esperienza che raccomando a tutti, davvero. Porca vacca, eravamo su un bus turistico a 4400 metri, neanche dodici ore dopo essere partiti dalla costa di Lima: in effetti era comprensibile accusare un po’ la quota. Alla stazione, le facce stupite dei tassisti alla vista delle sacche con gli sci non facevano che confermare quanto romantica e stupida fosse la nostra idea di voler sciare sulle montagne della Cordillera Vilcanota, così come lo sconcerto degli altri ospiti in ostello a vederci trascinare cinquanta chili di materiale a testa su per le scale, ansimanti a causa dell’aria rarefatta (già, Cusco si trova a 3400 metri, la quota di Punta Helbronner, tanto per intenderci). L’effetto che facevamo era più o meno quello che farebbe un predicatore di strada: tanto scompiglio per dare credito a delle idee che solo lui comprende fino in fondo. I giorni in città passano lentamente, in uno stato di attesa. Sappiamo che questa città in mezzo alle montagne è, per il momento, solo un porto in cui fermarsi, fare provviste e poi ripartire. 

Diventiamo frequentatori abituali del Mercado Central de San Pedro, dove, oltre a comprare i sacchi di riso e quinoa con i quali ci sfameremo per due settimane, andiamo a pranzare in mezzo agli operai peruviani per circa un euro e cinquanta a pasto. Dopo l’ultima spesa -e un sacco di quesiti irrisolti, tipo se le scorte di gas e carta igienica saranno sufficienti- una mattina ci dirigiamo alla stazione del pullman che ci porterà a Tinqui, e da lì, via, a piedi verso l’Ausengate. Tre ore e poco più sono sufficienti per coprire 90 km di terrore puro, mentre l’autista si diverte a sorpassare i camion all’esterno curva. Il nastro di asfalto si srotola attraverso colline che sfiorano i quattromila metri, il giallo del terreno brullo contrasta con l’azzurro del cielo e il bianco perfetto delle nuvole che lo riempono. Sono pazzesche le nuvole in Perù, la mano che le ha create potrebbe essere la stessa che ha fotografato anche lo sfondo di Windows XP. L’arrivo a Tinqui ha un che di cinematografico: le porte si aprono e noi ci ritroviamo a bordo strada, spaesati, circondati da vecchie peruviani con gli abiti locali che passano oltre i nostri sci buttati sull’asfalto senza degnarli di un’occhiata. E ora? Siamo spaesati, ora in teoria toccherebbe fare sul serio. Un flash nella testa mi distoglie da quei pensieri. Merda, il pile. Era sul sedile affianco al mio in pullman. Lo recupero mezz’ora dopo, aspettando il pullman che nel frattempo è arrivato al capolinea e ha ripercorso la tratta a ritroso. Nel frattempo Mose e Dadde hanno casualmente preso contatto con un ragazzo che lavora per la neonata Asociacìon de Arriero al Guia de Alta Montanã, fondata pochi anni fa da un gruppo di guide alpine svizzere con l’idea di formare la popolazione locale a lavorare in montagna con i turisti. Gli arrieros sono i mandriani che con i loro cavalli si occupano di trasportare i bagagli dei (pochi) trekkers che girano queste montagne, decisamente meno frequentate rispetto alla più famosa Cordillera Blanca, nel nord del Perù. Sono bassi, forti e temprati dal sole, in pratica l’equivalente andino degli sherpa himalayani. Iniziamo a trattare un prezzo mentre, stesa ai nostri piedi, nel piccolo cortile della casa in cui vivono e ospitano i clienti c’è l’unica cartina che siamo riusciti a recuperare. Poco più che uno schizzo disegnato a mano, con qualche curva di livello e i nomi di alcune cime: sembra più una mappa del tesoro che una carta topografica. Volevamo l’avventura, l’esplorare ghiacciai sconosciuti, ed eccoci accontentati. 

Camminiamo per tre giorni, mentre il paesaggio intorno a noi evolve lentamente. Lui, il Nevado Ausengate, è sempre lì sopra le nostre teste, ma per arrivare al “nostro” versante dobbiamo girargli attorno un pezzo alla volta. La strada si fa sempre più selvaggia, dopo i primi chilometri su una sterrata polverosa iniziamo a salire di quota mentre l’erba fa spazio alla ghiaia. Incontriamo pochissimi stranieri, soprattutto turisti venuti qui per il trekking. Alla vista dei nostri cavalli e degli sci che trasportano non fanno a meno di sorridere, meravigliati e incuriositi dal fatto che tre gringos abbiano l’intenzione di scendere da quei pendii che li sovrastano. Fanno impressione, le Ande. Le pareti si innalzano dritte come fusi dalle morene e dai ghiacciai, muri prepotentemente verticali e tormentati da seracchi imponenti. Avete presente la storia secondo la quale la neve non attacca oltre i 60 gradi? Ecco, qui non sembra andare proprio così. L’imponente parete Nord ci tiene compagnia per i primi due giorni, spaventosamente ripida. Rémy Lecluse e Glen Plake l’avevano salita, ma senza sciarla. Noi ce la lasciamo alle spalle e, al terzo giorno, arriviamo alla morena della parete sud, quella che dovrebbe essere il nostro obiettivo. Non si vede ancora del tutto, però. Scarichiamo, non con un certo dispiacere, i cavalli del loro peso che d’ora in poi toccherà a noi trasportare, diamo appuntamento agli arriero a due settimane dopo e cominciamo a montare la tenda a 4809 metri. Bene, da ora sono affari nostri. Abbiamo una cartina disegnata a mano, qualche foto dal satellite e nulla di più. Siamo così stupidi e sognatori (casualmente le due cose spesso vanno a braccetto) che nell’era di internet, del sapere le condizioni sulle Alpi in qualsiasi momento e delle soffiate via whatsapp che siamo riusciti a finire su delle montagne di cui oltre al nome si sa poco o niente. 

Lo scarso acclimamento si fa sentire e anche solo camminare in salita fanno salire i battiti. Aspettando una forma migliore, giriamo per la morena cercando un buon punto di vista sulla parete, fino a trovarlo a due ore dal campo base. In silenzio mandiamo giù il boccone. La sud dell’Ausengate è insciabile. Una possibile via di discesa è di fatto una seraccata di mille metri, che termina in un colatoio di roccia e detriti. L’altra, invece, è per metà buona. L’altra metà luccica per il ghiaccio azzurro che la ricopre. Diecimila chilometri in aereo, ventiquattro ore di pullman e tre giorni a piedi solo per constatare che il sogno grande che avevamo in testa non sarà minimamente realizzabile. A ben pensarci, è difficile trovare condizioni da urlo sulle Alpi, figuriamoci qua. 

Ormai siamo scesi sulla pista da ballo, quindi tanto vale provare a ballare. Nei giorni seguenti saliamo sul ghiacciaio per sciare una cima secondaria, chiaramente senza nome. Ci trasciniamo penosamente su per la morena con zaini giganti e il necessario per montare una seconda tenda che fungerà da campo base avanzato, da cui partiamo il mattino seguente con gli sci finalmente nei piedi. Qualcuno potrebbe anche ridere, ma l’aria sopra i 5000 metri non ti è amica per nulla. Se aumenti per un attimo il passo la testa scoppia e devi rassegnarti a salire di una trentina di passi alla volta. La vista, però, è incredibile. Il bianco della neve, il rosso delle montagne detritiche e l’azzurro del cielo. Nient’altro, solo questi tre colori che si intervallano con degli stacchi nettissimi. Sciamo ridendo dal nostro Nevado-senza-nome, alla fine curvare sulla neve è sempre una figata. Nei giorni successivi ci riproviamo: magari potrebbe saltare qualcosa di bello sul Nevado Mariposa, dirimpettaio dell’Ausengate. La parete nord si alza di 600 metri dal ghiacciaio, sormontata da una seraccata che sembra essere abbastanza tranquilla. Ripetiamo lo strazio della morena e siamo di nuovo, dopo una gelida notte schiacciati nella tendina a 5100 metri. Iniziamo a salire, lenti e costanti, fino al punto dove, con un traverso, ci si dovrebbe collegare al pendio superiore. I ramponi iniziano a mordere il manto sempre più duro, fino a che, in pochi metri, questa lascia spazio a un ghiaccio granitoso coperto da dieci centimetri di neve inconsistente. Sopra di noi un seracco sembra suggerirci di prendere una decisione in fretta. In quel momento, il classico momento del magari-salgo-ancora-un-pezzo-e-vedo, tornano a galla pensieri che sembravamo esserci messi tutti alle spalle. Ricordi di persone che non ci sono più, uniti alla consapevolezza che quaggiù non si può contare su di aiuto esterno in caso di problemi. Scheletri nell’armadio, peso delle responsabilità e paranoie che si accumulano fino a farci rinunciare. Certe cose ti rimangono dentro per sempre, e da te stesso non puoi mica scappare. Scaviamo una piazzola e dopo alcuni metri di derapata iniziamo a inanellare curve saltate, senza nessun sorriso, questa volta. Quando torni indietro ti rimane quasi sempre il dubbio di come sarebbe stato continuare. Magari sarebbe stato bellissimo, o magari saresti morto. 

Smontiamo il campo base avanzato e scendiamo la morena taciturni e scazzati. Allo stesso tempo, però, c’è una piccola cosa di cui siamo consapevoli: il fatto di averci provato lo stesso, di essere partiti dall’Italia senza alcuna certezza e nonostante questi preamboli aver voluto sognare in grande e fallire. 

Nei giorni successivi capisco di cosa è fatto l’alpinismo. Inizia a nevicare e ci chiudiamo nella tenda, senza fare altro che mangiare, leggere e mangiare di nuovo, fino a che, alla prima finestra di bel tempo, chiamiamo gli arriero con il satellitare per fare armi e bagagli e tornare alla civiltà. La prima birra a Pachanta rimarrà una delle più buone che io abbia mai bevuto, probabilmente anche perché è stata la prima volta che ne bevevo una dopo due settimane trascorse in una tenda a quasi cinquemila metri. Ecco, quello che volevo dire è che l’alpinismo è fatto di lunghe attese, di noia e di delusioni, di capelli unti dopo troppi giorni passati dall’ultima doccia e di spaghetti scotti nel jetboil. Di genitori che aspettano con comprensibile ansia tue notizie e di paure che affiorano proprio quando ti senti figo e invincibile. Insomma, l’alpinismo fa schifo, questo in teoria è quello che avrebbe dovuto insegnarmi la mia prima spedizione.C’è un problema, però. Torni a casa, ti fai una doccia, mangi come una fogna ed ecco che spunta di nuovo la maledetta scimmia, la stessa che si era fatta viva qualche mese fa e che ti sussurra dolcemente “ehi, scemo, quand’è che si parte?”. 

Guardi il borsone ancora da disfare e con un sorrisetto malcelato sai già che alla scimmiaccia non saprai dire di no e che, tutto sommato, gli spaghetti scotti in una tenda umida e fredda sono un bel modo di concludere una giornata di (tentato) sci. 

Reportage originariamente pubblicato su Skialper 119.